L’ultimo viaggio
Giovanni Pascoli. Poemi conviviali. Bologna, Zanichelli, 1905
XV. La procella
E sopra il flutto nove dì la nave
corse sospinta dal remeggio alato,
e notte e giorno, ché Odisseo due schiere
dinumerò degl’incliti compagni;
e l’una al sonno e l’altra era alla voga.
Nel decimo l’aurora mattiniera
a un lieve vento dispergea le rose.
Ei dalla scassa l’albero d’abete
levò, lo congegnò dentro la mastra,
e con drizze di cuoio alzò la vela,
ben torto, e saldi avvinse alle caviglie
di prua li stragli, ma di poppa i bracci.
E il vento urtò la vela in mezzo, e il flutto
rumoreggiava intorno alla carena.
E legarono allora anche le scotte
lungo la nave che correa veloce:
e pose in mezzo un’anfora di vino
Iro il pitocco, ed arrancando intorno
lo ministrava ai marinai seduti;
e sorse un riso. E nove dì sul flutto
li resse in corsa il vento e il timoniere.
Nel decimo tra nubi era l’aurora,
e venne notte, ed una aspra procella
tre quattro strappi fece nella vela;
e il Laertiade ammainò la vela,
e disse a tutti di gettarsi ai remi;
ed essi curvi sopra sé di forza
remigavano. E nove dì sbalzati
eran dai flutti e da funesti venti.
Infine i venti rappaciati e i flutti,
sul far di sera, videro una spiaggia.
A quella spinse il vecchio Eroe la nave,
in un seno tranquillo come un letto.
E domati da sonno e da stanchezza,
dormian sul lido, ove batteva l’onda.
Ma non dormiva egli, Odisseo, pur vinto
dalla stanchezza. Ché pensava in cuore
d’essere giunto all’isola di Circe:
vedea la casa di pulite pietre,
come in un sogno, e sorgere leoni
lenti, e le rosse bocche allo sbadiglio
aprire, e un poco già scodinzolare;
e risonava il grande atrio del canto
di tessitrice. Ora Odisseo parlava:
Terpiade Femio, dormi? Odimi: il sogno
dolce e dimenticato ecco io risogno!
Era l’amore; ch’ora mi sommuove,
come procella omai finita, il cuore.
Diceva; e nella notte alta e serena
dormiva il vento, e vi sorgea la falce,
su macchie e selve, della bianca luna
già presso al fine, e s’effondea l’olezzo
di grandi aperti calici di fiori
non mai veduti. Ed il gran mare ancora
si ricordava, e con le lunghe ondate
bianche di schiuma singhiozzava al lido.
XVI. L’isola Eea
con la luce rosea dell’aurora
s’avvide, ch’era l’isola di Circe.
E disse a Femio, al molto caro Aedo:
Terpiade Femio, vieni a me compagno
con la tua cetra, ch’ella oda il tuo canto
mortale, e tu l’eterno inno ne apprenda.
E disse ad Iro, dispensier del cibo:
Con gli altri presso il grigio mar tu resta,
e mangia e bevi, ch’ella non ti batta
con la sua verga, e n’abbi poi la ghianda
per cibo, e pianga, sgretolando il cibo,
con altra voce, o Iro non-più-Iro.
Così diceva sorridendo, e mosse
col dolce Aedo, per le macchie e i boschi,
e vide il passo donde l’alto cervo
d’arboree corna era disceso a bere:
Ma non vide la casa alta di Circe.
Or a lui disse il molto caro Aedo:
C’è addietro. Una tempesta è il desiderio,
ch’agli occhi è nube quando ai piedi è vento.
Ma il luogo egli conobbe, ove gli occorse
il dio che salva, e riconobbe il poggio
donde strappò la buona erba, che nera
ha la radice, e come latte il fiore.
E non vide la casa alta di Circe.
Or a lui disse il molto caro Aedo:
C’è innanzi. La vecchiezza è una gran calma,
che molto stanca, ma non molto avanza.
E proseguì pei monti e per le valli,
e selve e boschi, attento s’egli udisse
lunghi sbadigli di leoni, désti
al lor passaggio, o l’immortal canzone
di tessitrice, della dea vocale.
E nulla udì nell’isola deserta,
e nulla vide; e si tuffava il sole,
e la stellata oscurità discese.
E l’Eroe disse al molto caro Aedo:
Troppo nel cielo sono alte le stelle,
perché la strada io possa ormai vedere.
Or qui dormiamo, ed assai caldo il letto
a noi facciamo; ché risorto è il vento.
Disse, e ambedue si giacquero tra molte
foglie cadute, che ammucchiate al tronco
di vecchie quercie aveva la procella;
e parvero nel mucchio, essi, due tizzi,
vecchi, riposti con un po’ di fuoco,
sotto la grigia cenere infeconda.
E sopra loro alta stormìa la selva.
Ed ecco il cuore dell’Eroe leoni
udì ruggire. Avean dormito il giorno,
certo, e l’eccelsa casa era vicina.
Invero intese anche la voce arguta,
in lontananza, della dea, che, sola,
non prendea sonno e ancor tessea notturna.
Nè prendea sonno egli, Odisseo, ma spesso
si volgea su le foglie stridule aspre.
XVII. L’amore
E con la luce rosea dell’aurora
non udì più ruggito di leoni,
che stanchi alfine di vegliar, col muso
dormian disteso su le lunghe zampe.
Dormiva anch’ella, allo smorir dell’alba,
pallida e scinta sopra il noto letto.
E il vecchio Eroe parlava al vecchio Aedo:
Prenda ciascuno una sua via: ch’è meglio.
Ma diamo un segno; con la cetra, Aedo,
tu, che ritrova pur da lungi il cuore.
Ma s’io ritrovi ciò che il cuor mi vuole,
ti getto allora un alalà di guerra,
quale gettavo nella mischia orrenda
eroe di bronzo sopra i morti ignudi,
io; che il cuore lo intenda anche da lungi.
Disse, e taceva dei leoni uditi
nell’alta notte, e della dea canora.
E prese ognuno la sua via diversa
per macchie e boschi, e monti e valli, e nulla
udì l’Eroe, se non ruggir le quercie
a qualche rara raffica, e cantare
lontan lontano eternamente il mare.
E non vide la casa, nè i leoni
dormir col muso su le lunghe zampe,
nè la sua dea. Ma declinava il sole,
e tutte già s’ombravano le strade.
E mise allora un alalà di guerra
per ritrovare il vecchio Aedo, almeno;
e porse attento ad ogni aura l’orecchio
se udisse almeno della cetra il canto;
e sì, l’udì; traendo a lei, l’udiva,
sempre più mesta, sempre più soave,
cantar l’amore che dormia nel cuore,
e che destato solo allor ti muore.
La udì più presso, e non la vide, e vide
nel folto mucchio delle foglie secche
morto l’Aedo; e forse ora, movendo
pel cammino invisibile, tra i pioppi
e i salici che gettano il lor frutto,
toccava ancora con le morte dita
l’eburnea cetra: così mesto il canto
n’era, e così lontano e così vano.
Ma era in alto, a un ramo della quercia,
la cetra arguta, ove l’avea sospesa
Femio, morendo, a che l’Eroe chiamasse
brillando al sole o tintinnando al vento:
al vento che scotea gli alberi, al vento
che portava il singulto ermo del mare.
E l’Eroe pianse, e s’avviò notturno
alla sua nave, abbandonando morto
il dolce Aedo, sopra cui moveva
le foglie secche e l’aurea cetra il vento.
XVIII. L’isola delle capre
Indi più lungi navigò, più triste,
E corse i flutti nove dì la nave
or col remeggio or con la bianca vela.
E giunse alfine all’isola selvaggia
ch’è senza genti e capre sole alleva.
E qui vinti da sonno e da stanchezza
dormian sul lido a cui batteva l’onda.
Ma con la luce rosea dell’aurora
vide Odisseo la terra dei Ciclopi,
non presso o lungi, e gli sovvenne il vanto
ch’ei riportò con la sua forza e il senno,
del mangiatore d’uomini gigante.
Ed oblioso egli cercò l’Aedo
per dire a lui: Terpiade Femio, il sogno
dolce e dimenticato io lo risogno:
era la gloria... Ma il vocale Aedo
dormia sotto le stridule aspre foglie,
e la sua cetra là cantava al vento
il dolce amore addormentato in cuore,
che appena desto solo allor ti muore.
E l’Eroe disse ai vecchi remiganti:
Compagni, udite. Qui non son che capre;
e qui potremmo d’infinita carne
empirci, fino a che sparisca il sole.
Ma no: le voglio prendere al pastore,
pecore e capre; ch’è, così, ben meglio.
È là, pari a un cocuzzolo silvestro,
quel mio pastore. Io l’accecai. Ma il grande
cuor non m’è pago. Egli implorò dal padre,
ch’io perdessi al ritorno i miei compagni,
e mal tornassi, e in nave d’altri, e tardi.
Or sappia che ho compagni e che ritorno
sopra nave ben mia dal mio ritorno.
Andiamo: a mare troveremo un antro
tutto coperto, io ben lo so, di lauro.
Avessi ancora il mio divino Aedo!
Vorrei che il canto d’Odisseo là dentro
cantasse, e quegli nel tornare all’antro
sostasse cieco ad ascoltar quel canto,
coi greggi attorno, il mento sopra il pino.
E io sedessi all’ombra sua, nel lido!
Disse, e ai compagni longiremi ingiunse
di salir essi e sciogliere gli ormeggi.
Salirono essi, e in fila alle scalmiere
facean coi remi biancheggiare il flutto.
E giunti presso, videro sul mare,
in una punta, l’antro, alto, coperto
di molto lauro, e v’era intorno il chiuso
di rozzi blocchi, e lunghi pini e quercie
altochiomanti. E il vecchio Eroe parlava:
Là prendiam terra, ch’egli dal remeggio
non ci avvisti; ch’a gli orbi occhio è l’orecchio;
e non ci avventi un masso, come quello
che troncò in cima di quel picco nero,
e ci scagliò. Rimbombò l’onda al colpo.
Ed accennava un alto monte, tronco
del capo, che sorgeva solitario.
XIX. Il Ciclope
Ecco: ai compagni disse di restare
presso la nave e di guardar la nave.
Ed egli all’antro già movea, soletto,
per lui vedere non veduto, quando
parasse i greggi sufolando al monte.
Ora all’Eroe parlava Iro il pitocco:
Ben verrei teco per veder quell’uomo
che tanto mangia, e portar via, se posso,
di sui cannicci, già scolati i caci,
e qualche agnello dai gremiti stabbi.
Poi ch’Iro ha fame. E s’ei dentro ci fosse,
il gran Ciclope, sai ch’Iro è veloce
ben che non forte; è come Iri del cielo
che va sul vento con il piè di vento.
L’Eroe sorrise, e insieme i due movendo,
il pitocco e l’Eroe, giunsero all’antro.
Dentro e’ non era. Egli pasceva al monte
i pingui greggi. E i due meravigliando
vedean graticci pieni di formaggi,
e gremiti d’agnelli e di capretti
gli stabbi, e separati erano, ognuni
ne’ loro, i primaticci, i mezzanelli
e i serotini. E d’uno dei recinti
ecco che uscì, con alla poppa il bimbo,
un’altocinta femmina, che disse:
Ospiti, gioia sia con voi. Chi siete?
donde venuti? a cambiar qui, qual merce?
Ma l’uomo è fuori, con la greggia, al monte;
tra poco torna, ché già brucia il sole.
Ma pur mangiate, se il tardar v’è noia.
Sorrise ad Iro il vecchio Eroe: poi disse:
Ospite donna, e pur con te sia gioia.
Ma dunque l’uomo a venerare apprese
gli dei beati, ed ora sa la legge,
benché tuttora abiti le spelonche,
come i suoi pari, per lo scabro monte?
E l’altocinta femmina rispose:
Ospite, ognuno alla sua casa è legge,
e della moglie e de’ suoi nati è re.
Ma noi non deprediamo altri: ben altri,
ch’errano in vano su le nere navi,
come ladroni, a noi pecore o capre
hanno predate. Altrui portando il male
rischian essi la vita. Ma voi siete
vecchi, e cercate un dono qui, non prede.
Verso Iro il vecchio anche ammiccò: poi disse:
Ospite donna, ben di lui conosco
quale sia l’ospitale ultimo dono.
Ed ecco un grande tremulo belato
s’udì venire, e un suono di zampogna,
e sufolare a pecore sbandate:
e ne’ lor chiusi si levò più forte
il vagir degli agnelli e dei capretti.
Ch’egli veniva, e con fragore immenso
depose un grande carico di selva
fuori dell’antro: e ne rintronò l’antro.
E Iro in fondo s’appiattò tremando.
XX. La gloria
E l’uomo entrò, ma l’altocinta donna
gli venne incontro, e lo seguiano i figli
molti, e le molte pecore e le capre
l’una all’altra addossate erano impaccio,
per arrivare ai piccoli. E infinito
era il belato, e l’alte grida, e il fischio.
Ma in breve tacque il gemito, e ciascuno
suggea scodinzolando la sua poppa.
E l’uomo vide il vecchio Eroe che in cuore
meravigliava ch’egli fosse un uomo;
e gli parlò con le parole alate:
Ospite, mangia. Assai per te ne abbiamo.
Ed al pastore il vecchio Eroe rispose:
Ospite, dimmi. Io venni di lontano,
molto lontano; eppur io già, dal canto
d’erranti aedi, conoscea quest’antro.
Io sapea d’un enorme uomo gigante
che vivea tra infinite greggie bianche,
selvaggiamente, qui su i monti, solo
come un gran picco; con un occhio tondo...
Ed il pastore al vecchio Eroe rispose:
Venni di dentro terra, io, da molt’anni;
e nulla seppi d’uomini giganti.
E l’Eroe riprendeva, ed i fanciulli
gli erano attorno, del pastore, attenti:
che aveva solo un occhio tondo, in fronte,
come uno scudo bronzeo, come il sole,
acceso, vuoto. Verga un pino gli era,
e gli era il sommo d’un gran monte, pietra
da fionda, e in mare li scagliava, e tutto
bombiva il mare al loro piombar giù...
Ed il pastore, tra i suoi pastorelli,
pensava, e disse all’altocinta moglie:
Non forse è questo che dicea tuo padre?
Che un savio c’era, uomo assai buono e grande
per qui, Telemo Eurymide, che vecchio
dicea che in mare piovea pietre, un tempo,
sì, da quel monte, che tra gli altri monti
era più grande; e che s’udian rimbombi
nell’alta notte, e che appariva un occhio
nella sua cima, un tondo occhio di fuoco...
Ed al pastore chiese il moltaccorto:
E l’occhio a lui chi trivellò notturno?
Ed il pastore ad Odisseo rispose:
Al monte? l’occhio? trivellò? Nessuno.
Ma nulla io vidi, e niente udii. Per nave
ci vien talvolta, e non altronde, il male.
Disse: e dal fondo Iro avanzò, che disse:
Tu non hai che fanciulli per aiuto.
Prendi me, ben sì vecchio, ma nessuno
veloce ha il piede più di me, se debbo
cercar l’agnello o rintracciare il becco.
Per chi non ebbe un tetto mai, pastore,
quest’antro è buono. Io ti sarò garzone.
XXI. Le sirene
Indi più lungi navigò, più triste.
E stando a poppa il vecchio Eroe guardava
scuro verso la terra de’ Ciclopi,
e vide dal cocuzzolo selvaggio
del monte, che in disparte era degli altri,
levarsi su nel roseo cielo un fumo,
tenue, leggiero, quale esce su l’alba
dal fuoco che al pastore arse la notte.
Ma i remiganti curvi sopra i remi
vedeano, sì, nel violaceo mare
lunghe tremare l’ombre dei Ciclopi
fermi sul lido come ispidi monti.
E il cuore intanto ad Odisseo vegliardo
squittiva dentro, come cane in sogno:
Il mio sogno non era altro che sogno;
e vento e fumo. Ma sol buono è il vero.
E gli sovvenne delle due Sirene.
C’era un prato di fiori in mezzo al mare.
Nella gran calma le ascoltò cantare:
Ferma la nave! Odi le due Sirene
ch’hanno la voce come è dolce il miele;
ché niuno passa su la nave nera
che non si fermi ad ascoltarci appena,
e non ci ascolta, che non goda al canto,
né se ne va senza saper più tanto:
ché noi sappiamo tutto quanto avviene
sopra la terra dove è tanta gente!
Gli sovveniva, e ripensò che Circe
gl’invidiasse ciò che solo è bello:
saper le cose. E ciò dovea la Maga
dalle molt’erbe, in mezzo alle sue belve.
Ma l’uomo eretto, ch’ha il pensier dal cielo,
dovea fermarsi, udire, anche se l’ossa
aveano poi da biancheggiar nel prato,
e raggrinzarsi intorno lor la pelle.
Passare ei non doveva oltre, se anco
gli si vietava riveder la moglie
e il caro figlio e la sua patria terra.
E ai vecchi curvi il vecchio Eroe parlò:
Uomini, andiamo a ciò che solo è bene:
a udire il canto delle due Sirene.
Io voglio udirlo, eretto su la nave,
né già legato con le funi ignave:
libero! alzando su la ciurma anela
la testa bianca come bianca vela;
e tutto quanto nella terra avviene
saper dal labbro delle due Sirene.
Disse, e ne punse ai remiganti il cuore,
che seduti coi remi battean l’acqua,
saper volendo ciò che avviene in terra:
se avea fruttato la sassosa vigna,
se la vacca avea fatto, se il vicino
aveva d’orzo più raccolto o meno,
e che facea la fida moglie allora,
se andava al fonte, se filava in casa.
XXII. In cammino
Ed ecco giunse all’isola dei loti.
E sedean sulla riva uomini e donne,
sazi di loto, in dolce oblìo composti.
E sorsero, ai canuti remiganti
offrendo pii la floreal vivanda.
O così vecchi erranti per il mare,
mangiate il miele dell’oblìo ch’è tempo!
Passò la nave, e lento per il cielo
il sonnolento lor grido vanì.
E quindi venne all’isola dei sassi.
E su le rupi stavano i giganti,
come in vedetta, e su la nave urlando
piovean pietre da carico con alto
fracasso. A stento si salvò la nave.
E quindi giunse all’isola dei morti.
E giacean lungo il fiume uomini e donne,
sazi di vita, sotto i salci e i pioppi.
Volsero il capo; e videro quei vecchi;
e alcuno il figlio ravvisò fra loro,
più di lui vecchio, e per pietà di loro
gemean: Venite a riposare: è tempo!
Passò la nave, ed esile sul mare
il loro morto mormorio vanì.
E di lì venne all’isola del sole.
E pascean per i prati le giovenche
candide e nere, con le dee custodi.
Essi udiano mugliare nella luce
dorata. A stento lontanò la nave.
E di lì giunse all’isola del vento.
E sopra il muro d’infrangibil bronzo
vide i sei figli e le sei figlie a guardia.
E videro la nave essi, e nel bianco
suo timoniere, parso in prima un cigno
o una cicogna, uno Odisseo conobbe,
che così vecchio anco sfidava i venti;
e con un solo sibilo sul vecchio
scesero insieme di sul liscio masso.
Ed ora l’ira li portò, dei venti,
per giorni e notti, e li sospinse verso
le rupi erranti, ma così veloce,
che a mezzo un cozzo delle rupi dure
come uno strale scivolò la nave.
E allora l’aspra raffica discorde
portava lei contro Cariddi e Scilla.
E già l’Eroe sentì Scilla abbaiare,
come inquïeto cucciolo alla luna,
sentì Cariddi brontolar bollendo,
come il lebete ad una molta fiamma;
e le dodici branche avventò Scilla,
ed assorbì la salsa acqua Cariddi:
invano. Era passata oltre la nave.
E tornarono i venti alla lor casa
cinta di bronzo, mormorando cupi
tra loro, in rissa. E venne un’alta calma
senza il più lieve soffio, e sopra il mare
un dio forse era, che addormentò l’onde.
XXIII. Il vero
Ed il prato fiorito era nel mare,
nel mare liscio come un cielo; e il canto
non risonava delle due Sirene,
ancora, perché il prato era lontano.
E il vecchio Eroe sentì che una sommessa
forza, corrente sotto il mare calmo,
spingea la nave verso le Sirene;
e disse agli altri d’inalzare i remi:
La nave corre ora da sé, compagni!
Non turbi il rombo del remeggio i canti
delle Sirene. Ormai le udremo. Il canto
placidi udite, il braccio su lo scalmo.
E la corrente tacita e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
E il divino Odisseo vide alla punta
dell’isola fiorita le Sirene
stese tra i fiori, con il capo eretto
su gli ozïosi cubiti, guardando
il mare calmo avanti sé, guardando
il roseo sole che sorgea di contro;
guardando immote; e la lor ombra lunga
dietro rigava l’isola dei fiori.
Dormite? L’alba già passò. Già gli occhi
vi cerca il sole tra le ciglia molli.
Sirene, io sono ancora quel mortale
che v’ascoltò, ma non poté sostare.
E la corrente tacita e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
E il vecchio vide che le due Sirene,
le ciglia alzate su le due pupille,
avanti sé miravano, nel sole
fisse, od in lui, nella sua nave nera.
E su la calma immobile del mare,
alta e sicura egli inalzò la voce.
Son io! Son io, che torno per sapere!
Ché molto io vidi, come voi vedete
me. Sì; ma tutto ch’io guardai nel mondo,
mi riguardò; mi domandò: Chi sono?
E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
E il vecchio vide un grande mucchio d’ossa
d’uomini, e pelli raggrinzate intorno,
presso le due Sirene, immobilmente
stese sul lido, simili a due scogli.
Vedo. Sia pure. Questo duro ossame
cresca quel mucchio. Ma, voi due, parlate!
Ma dite un vero, un solo a me, tra il tutto,
prima ch’io muoia, a ciò ch’io sia vissuto!
E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
E s’ergean su la nave alte le fronti,
con gli occhi fissi, delle due Sirene.
Solo mi resta un attimo. Vi prego!
Ditemi almeno chi sono io! chi ero!
E tra i due scogli si spezzò la nave
XIV. Calypso
E il mare azzurro che l’amò, più oltre
spinse Odisseo, per nove giorni e notti,
e lo sospinse all’isola lontana,
alla spelonca, cui fioriva all’orlo
carica d’uve la pampinea vite.
E fosca intorno le crescea la selva
d’ontani e d’odoriferi cipressi;
e falchi e gufi e garrule cornacchie
v’aveano il nido. E non dei vivi alcuno,
nè dio nè uomo, vi poneva il piede.
Or tra le foglie della selva i falchi
battean le rumorose ale, e dai buchi
soffiavano, dei vecchi alberi, i gufi,
e dai rami le garrule cornacchie
garrian di cosa che avvenia nel mare.
Ed ella che tessea dentro cantando,
presso la vampa d’olezzante cedro,
stupì, frastuono udendo nella selva,
e in cuore disse: Ahimè, ch’udii la voce
delle cornacchie e il rifiatar dei gufi!
E tra le dense foglie aliano i falchi.
Non forse hanno veduto a fior dell’onda
un qualche dio, che come un grande smergo
viene sui gorghi sterili del mare?
O muove già senz’orma come il vento,
sui prati molli di viola e d’appio?
Ma mi sia lungi dall’orecchio il detto!
In odio hanno gli dei la solitaria
Nasconditrice. E ben lo so, da quando
l’uomo che amavo, rimandai sul mare
al suo dolore. O che vedete, o gufi
dagli occhi tondi, e garrule cornacchie?
Ed ecco usciva con la spola in mano,
d’oro, e guardò. Giaceva in terra, fuori
del mare, al piè della spelonca, un uomo,
sommosso ancor dall’ultima onda: e il bianco
capo accennava di saper quell’antro,
tremando un poco; e sopra l’uomo un tralcio
pendea con lunghi grappoli dell’uve.
Era Odisseo: lo riportava il mare
alla sua dea: lo riportava morto
alla Nasconditrice solitaria,
all’isola deserta che frondeggia
nell’ombelico dell’eterno mare.
Nudo tornava chi rigò di pianto
le vesti eterne che la dea gli dava;
bianco e tremante nella morte ancora,
chi l’immortale gioventù non volle.
Ed ella avvolse l’uomo nella nube
dei suoi capelli; ed ululò sul flutto
sterile, dove non l’udia nessuno:
— Non esser mai! non esser mai! più nulla,
ma meno morte, che non esser più! —