L’ultimo viaggio

Giovanni Pascoli. Poemi conviviali. Bologna, Zanichelli, 1905

I.La pala

Ed il timone al focolar sospese
in Itaca l’Eroe navigatore.
Stanco giungeva da un error terreno,
grave ai garretti, ch’egli avea compiuto
reggendo sopra il grande omero un remo.
Quelli cercava che non sanno il mare
né navi nere dalle rosse prore,
e non miste di sale hanno vivande.
E già più lune s’erano consunte
tra scabre rupi, nel cercare in vano
l’azzurro mare in cui tuffar la luce;
nè da gran tempo più sentiva il cielo
l’odor di sale, ma l’odor di verde:
quando gli occorse un altro passeggero,
che disse; e il vento che ululò notturno,
si dibatteva, intorno loro, ai monti,
come orso in una fossa alta caduto:
Uomo straniero, al re tu muovi? Oh! tardo!
Al re, già mondo è nel granaio il grano.
Un dio mandò quest’alito, che soffia
anc’oggi, e ieri ventilò la lolla.
Oggi, o tarda opra, vana è la tua pala.
Disse; ma il cuore tutto rise accorto
all’Eroe che pensava le parole
del morto, cieco, dallo scettro d’oro.
Ché cieco ei vede, e tutto sa pur morto:
tra gli alti pioppi e i salici infecondi,
nella caligo, egli, bevuto al botro
il sangue, disse: Misero, avrai pace

quando il ben fatto remo della nave
ti sia chiamato un distruttor di paglie.
Ed ora il cuore, a quel pensier, gli rise
E disse: Uomo terrestre, ala! non pala!
Ma sia. Ben ora qui fermarla io voglio
nella compatta aridità del suolo.
Un fine ha tutto. In ira a un dio da tempo
io volo foglia a cui s’adira il vento.
E l’altro ancora ad Odisseo parlava:
Chi, donde sei degli uomini? venuto
come, tra noi? Non già per l’aere brullo,
come alcuno dei cigni longicolli,
ma scambiando tra loro i due ginocchi.
Parlami, e narra senza giri il vero.

II. L’ala

E rispose l’Eroe molto vissuto:
Tutto ti narro senza giri il vero.
Sono, a voi sconosciuti, uomini, anch’essi
mortali sì, ma, come dei, celesti,
che non coi piedi, come i lenti bovi,
vanno, e con la vicenda dei ginocchi,
ma con la spinta delle aeree braccia,
come gli uccelli, ed hanno il color d’aria
sotto sé, vasto. Io vidi viaggiando
sbocciar le stelle fuor del cielo infranto,
sotto questi occhi, e il guidator del Carro
venir con me fischiando ai buoi lontano,
e l’auree rote lievi sbalzar sulla
tremola ghiaia della strada azzurra.

Né sempre l’ali noi tra cielo e cielo
battiamo: spesso noi prendiamo il vento:
a mezzo un ringhio acuto, per le froge
larghe prendiamo il vano vento folle,
che ci conduca, e con la forte mano
le briglie io reggo per frenarlo al passo.
Ma un dio ce n’odia, come voi la terra
odia, che voi sostenta sì, ma spezza.
Ch’ha tutto un fine. Or tu fa che un torello
dal re mi venga, ed un agnello e un verro;
che qui ne onori quell’ignoto iddio.
E l’altro ancora rispondea stupito:
L’ignoto è grande, e grande più, se dio.
Or vieni al re, che raddolcito ha il cuore
oggi, che il grano gli avanzò le corbe.
Così l’eroe divino in una forra
selvosa il remo suo piantò, la lieve
ala incrostata dalla salsa gromma.
Al dio sdegnato per il suo Ciclope,
egli uccise un torello ed un agnello
e terzo un verro montator di scrofe;
e poi discese, e insieme a lui più lune
vennero, e l’una dopo l’altra ognuna
sé, girando tra roccie aspre, consunse.
L’ultima, piena tremolò sul mare
riscintillante, e su la bianca sabbia,
piccola e nera gli mostrò la nave,
e i suoi compagni, ch’attendean guardando
a monte, muti. Ed ei salpò. Sbalzare
vide ancora le rote auree del Carro
sopra le ghiaie dell’azzurra strada:
rivide il fumo salir su, rivide
Itaca scabra, e la sua grande casa.
Dove il timone al focolar sospese.

III. Le gru nocchiere

 E un canto allora venne a lui dall’alto,
di su le nubi, di raminghe gru.
Sospendi al fumo ora il timone, e dormi.
Le Gallinelle fuggono lo strale
già d’Orïone, e son cadute in mare.
Rincalza su la spiaggia ora la nave
nera con pietre, che al ventar non tremi,
Eroe; ché sono per soffiare i venti.
L’alleggio della stiva apri, che l’acqua
scoli e non faccia poi funghir le doghe,
Eroe; ché sono per cader le pioggie.
Sospendi al fumo ora il timone, e in casa
tieni all’asciutto i canapi ritorti,
ogni arma, ogni ala della nave, e dormi.
Ché viene il verno, viene il freddo acuto
che fa nei boschi bubbolar le fiere
che fuggono irte con la coda al ventre:
quando a tre piedi, il filo della schiena
rotto a metà, la grigia testa bassa,
il vecchio va sotto la neve bianca;
e il randagio pitocco entra dal fabbro,
nella fucina aperta, e prende sonno
un poco al caldo tra l’odor di bronzo.
Navigatore di cent’arti, dormi
nell’alta casa, o, se ti piace, solca
ora la terra, dopo arata l’onda.
Questo era canto che rodeva il cuore
del timoniere, che volgea la barra

verso un approdo, e tedio avea dell’acqua;
ché passavano, agli uomini gridando
giunto il maltempo, venti nevi pioggie,
e lo sparire delle stelle buone;
e tra le nubi esse con fermo cuore,
gittando rauche grida alla burrasca,
andavano, e coi remi battean l’aria.

IV. Le gru guerriere

Dicean, Dormi, al nocchiero, Ara, al villano,
di su le nubi, le raminghe gru.
Ara: la stanga dell’aratro al giogo
lega dei bovi; ché tu n’hai, ben d’erbe
sazi, in capanna, o figlio di Laerte.
Fatti col cuoio d’un di loro, ucciso,
un paio d’uose, che difenda il freddo,
ma prima il dentro addenserai di feltro;
e cucirai coi tendini del bove
pelli de’ primi nati dalle capre,
che a te dall’acqua parino le spalle;
e su la testa ti porrai la testa
d’un vecchio lupo, che ti scaldi, e i denti
bianchi digrigni tra il nevischio e i venti.
Arare il campo, non il mare, è tempo,
da che nel cielo non si fa vedere
più quel branchetto delle sette stelle.
Sessanta giorni dopo volto il sole,
quando ritorni il conduttor del Carro,

allor dolce è la brezza, il mare è calmo;
brilla Boote a sera, e sul mattino
tornata già la rondine cinguetta,
che il mare è calmo e che dolce è la brezza.
La brezza chiama a sé la vela, il mare
chiama a sé il remo; e resta qua canoro
il cuculo a parlare al vignaiolo.
Questo era canto che mordeva il cuore
a chi non bovi e sol avea l’aratro;
ch’egli ha bel dire, Prestami il tuo paro!
Son le faccende, ed ora ogni bifolco
semina, e poi, sicuro della fame,
ode venti fischiare, acque scrosciare,
ilare. E intanto esse, le gru, moveano
verso l’Oceano, a guerra, in righe lunghe,
empiendo il cielo d’un clangor di trombe.

V. Il remo confitto

E per nove anni al focolar sedeva,
di sua casa, l’Eroe navigatore:
ché più non gli era alcuno error marino
dal fato ingiunto e alcuno error terrestre.
Sì, la vecchiaia gli ammollia le membra
a poco a poco. Ora dovea la morte
fuori del mare giungergli, soave,
molto soave, e né coi dolci strali
dovea ferirlo, ma fiatar leggiera
sopra la face cui già l’uragano

frustò, ma fece divampar più forte.
E i popoli felici erano intorno,
che il figlio, nato lungi alle battaglie,
savio reggeva in abbondevol pace.
Crescean nel chiuso del fedel porcaio
floridi i verri dalle bianche zanne,
e nei ristretti pascoli più tanti
erano i bovi dalle larghe fronti,
e tante più dal Nerito le capre
pendean strappando irsuti pruni e stipe,
e molto sotto il tetto alto giaceva
oro, bronzo, olezzante olio d’oliva.
Ma raro nella casa era il convito,
né più sonava l’ilare tumulto
per il grande atrio umbratile; ché il vecchio
più non bramava terghi di giovenco,
né coscie gonfie d’adipe, di verro;
amava, invano, la fioril vivanda,
il dolce loto, cui chi mangia, è pago,
né altro chiede che brucar del loto.
Così le soglie dell’eccelsa casa
or d’Odissèo dimenticò l’aedo
dai molti canti, e il lacero pitocco,
che l’un corrompe e l’altro orna il convito.
E il Laertiade ora vivea solingo
fuori del mare, come il vecchio remo
scabro di salsa gromma, che piantato
lungi avea dalle salse aure nel suolo,
e strettolo, ala, tra le glebe gravi.
E il grigio capo dell’Eroe tremava,
avanti al mormorare della fiamma,
come là, nella valle solitaria,
quel remo al soffio della tramontana.

VI. Il fuso al fuoco

E per nove anni ogni anno udì la voce,
di su le nubi, delle gru raminghe
che diceano, Ara, che diceano, Dormi;
ed alternando squilli di battaglia
coi remi in lunghe righe battean l’aria:
mentre noi guerreggiamo, ara, o villano;
dormi, o nocchiero, noi veleggeremo.
E il canto il cuore dell’Eroe mangiava,
chiuso alle genti come un aratore
cui per sementa mancano i due bovi.
Sedeva al fuoco, e la sua vecchia moglie,
la bene oprante, contro lui sedeva,
tacita. E per le fauci del camino
fuligginose, allo spirar de’ venti
umidi, ardeano fisse le faville;
ardean, lievi sbraciando, le faville
sul putre dorso dei lebeti neri.
Su quelle intento si perdea con gli occhi
avvezzi al cielo il corridor del mare.
E distingueva nel sereno cielo
le fuggitive Pleiadi e Boote
tardi cadente e l’Orsa, anche nomata
il Carro, che lì sempre si rivolge,
e sola è sempre del nocchier compagna.
E il fulgido Odisseo dava la vela
al vento uguale, e ferme avea le scotte,
e i buoni suoi remigatori stanchi
poneano i remi lungo le scalmiere.
La nave con uno schioccar di tela

correa da sé nella stellata notte,
e prendean sonno i marinai su i banchi,
e lei portava il vento e il timoniere.
L’Eroe giaceva in un’irsuta pelle,
sopra coperta, a poppa della nave,
e, dietro il capo, si fendeva il mare
con lungo scroscio e subiti barbagli.
Egli era fisso in alto, nelle stelle,
ma gli occhi il sonno gli premea, soave,
e non sentiva se non sibilare
la brezza nelle sartie e nelli stragli.

 E la moglie appoggiata all’altro muro
faceva assiduo sibilare il fuso.

VII. La zattera

E gli dicea la veneranda moglie:
Divo Odisseo, mi sembra oggi quel giorno
che ti rividi. Io ti sedea di contro,
qui, nel mio seggio. Stanco eri di mare,
eri, divo Odisseo, sazio di sangue!
Come ora. Muto io ti vedeva al lume
del focolare, fissi gli occhi in giù.
Fissi in giù gli occhi, presso la colonna,
egli taceva: ché ascoltava il cuore
suo che squittiva come cane in sogno.
E qualche foglia d’ellera sul ciocco
secco crocchiava, e d’uno stizzo il vento
uscia fischiando; ma l’Eroe crocchiare
udiva un po’ la zattera compatta,
opera sua nell’isola deserta.

Su la decimottava alba la zattera
egli sentì brusca salire al vento
stridulo; e l’uomo su la barca solo
era, e sola la barca era sul mare:
soli con qualche errante procellaria.
E di là donde tralucea già l’alba,
ora appariva una catena fosca
d’aeree nubi, e torbide a prua l’onde
picchiavano; ecco e si sventò la vela.
E l’uomo allora udì di contro un canto
di torte conche, e divinò che dietro
quelle il nemico, il truce dio del mare,
venìa tornando ai suoi cerulei campi.
Lui vide, e rise il dio con uno schianto
secco di tuono che rimbombò tetro;
e venne. Udiva egli lo sciabordare
delle ruote e il nitrir degli ippocampi.
E volavano al cielo alto le schiume
dalle lor bocche masticanti il morso;
e l’uragano fumido di sghembo
sferzava lor le groppe di serpente.
Soli nel mare erano l’uomo e il nume
e il nume ergeva su l’ondate il torso
largo, e scoteva il gran capo; e tra il nembo
folgoreggiava il lucido tridente.
     E il Laertiade al cuore suo parlava,
ch’altri non v’era; e sotto avea la barra.

VIII. Le rondini

E per nove anni egli aspettò la morte
che fuor del mare gli dovea soave
giungere; e sì, nel decimo, su l’alba,
giunsero a lui le rondini, dal mare.
Egli dormia sul letto traforato
cui sosteneva un ceppo d’oleastro
barbato a terra; e marinai sognava
parlare sparsi per il mare azzurro.
E si destò con nell’orecchio infuso
quel vocìo fioco; ed ascoltò seduto:
erano rondini, e sonava intorno
l’umbratile atrio per il lor sussurro.
E si gittò sugli omeri le pelli
caprine, ai piedi si legò le dure
uose bovine: e su la testa il lupo
facea nell’ombra biancheggiar le zanne.
E piano uscì dal talamo, non forse
udisse il lieve cigolìo la moglie;
ma lei teneva un sonno alto, divino,
molto soave, simile alla morte.
E il timone staccò dal focolare,
affumicato, e prese una bipenne.
 Ma non moveva il molto accorto al mare,
subito, sì per colli irti di quercie,
per un vïotterello aspro, e mortali
trovò ben pochi per la via deserta;
e disse a un mandriano segaligno,
che per un pioppo secco era la scure;

e disse ad una riccioluta ancella,
che per uno stabbiolo era il timone:
così parlava il tessitor d’inganni,
e non senz’ali era la sua parola.
E poi soletto deviò volgendo
l’astuto viso al fresco alito salso.
Le quercie ai piedi gli spargean le foglie
roggie che scricchiolavano al suo passo.
Gemmava il fico, biancheggiava il pruno,
e il pero avea ne’ rosei bocci il fiore.
E di su l’alto Nerito il cuculo
contava arguto il su e giù de l’onde.
E già l’Eroe sentiva sotto i piedi
non più le foglie ma scrosciar la sabbia;
né più pruni fioriti, ma vedeva
i giunchi scabri per i bianchi nicchi;
e infine apparve avanti al mare azzurro
l’Eroe vegliardo col timone in collo
e la bipenne; e l’inquieto mare,
mare infinito, fragoroso mare,
su la duna lassù lo riconobbe
col riso innumerevole dell’onde.

IX. Il pescatore

Ma lui vedendo, ecco di subito una
rondine deviò con uno strillo.
Ch’ella tornava. Ora Odisseo con gli occhi
cercava tutto il grigio lido curvo,
s’egli vedesse la sua nave in secco.

Ma non la vide; e vide un uomo, un vecchio
di triti panni, chino su la sabbia
raspare dove boccheggiava il mare
alternamente. A lui fu sopra, e disse:
Abbiamo nulla, o pescator di rena?
Ben vidi, errando su la nave nera,
uomo seduto in uno scoglio aguzzo
reggere un filo pendulo sul flutto;
ma il lungo filo tratto giù dal piombo
porta ai pesci un adunco amo di bronzo
che sì li uncina; e ne schermisce il morso
un liscio cerchio di bovino corno.
Ché l’uomo, quando è roso dalla fame,
mangia anche il sacro pesce che la carne
cruda divora. Io vidi, anzi, mortali
gittar le reti dalle curve navi,
sempre alïando sui pescosi gorghi,
come le folaghe e gli smerghi ombrosi.
E vidi i pesci nella grigia sabbia
avvoltolarsi, per desìo dell’acqua,
versati fuori della rete a molte
maglie; e morire luccicando al sole.
Ma non vidi senz’amo e senza rete
niuno mai fare tali umide prede,
o vecchio, e niuno farsi mai vivanda
di tali scabre chiocciole dell’acqua,
che indosso hanno la nave, oppur dei granchi,
che indosso hanno l’incudine dei fabbri.
 E il malvestito al vecchio Eroe rispose:
Tristo il mendico che al convito sdegna
cibo che lo scettrato re gli getta,
sia tibia ossuta od anche pingue ventre.
Ché il Tutto, buono, ha tristo figlio: il Niente.
Prendo ciò che il mio grande ospite m’offre,

che dona, cupo brontolando in cuore,
ma dona: il mare fulgido e canoro,
ch’è sordo in vero, ma più sordo è l’uomo.
Or al mendico il vecchio Eroe rispose:
O non ha la rupestre Itaca un buono
suo re ch’ha in serbo molto bronzo e oro?
che verri impingua, negli stabbi, e capre?
cui molto odora nei canestri il pane?
Non forse il senno d’Odisseo qui regge,
che molto errò, molto in suo cuor sofferse?
e fu pitocco e malvestito anch’esso.
Non sai la casa dal sublime tetto,
del Laertiade fulgido Odisseo?

X. La conchiglia

Il malvestito non volgeva il capo
dal mare alterno, ed al ricurvo orecchio
teneva un’aspra tortile conchiglia,
come ascoltasse. Or all’Eroe rispose:
 O Laertiade fulgido Odisseo,
so la tua casa. Ma non io pitocco
querulo sono, poi che fui canoro
eroe, maestro io solo a me. Trovai
sparsi nel cuore gl’infiniti canti.
A te cantai, divo Odisseo, da quando
pieno di morti fu l’umbratile atrio,
simili a pesci quali il pescatore
lasciò morire luccicando al sole.

E vedo ancor le schiave moriture
terger con acqua e con porose spugne
il sangue, e molto era il singulto e il grido.
A te cantavo, e tu bevendo il vino
cheto ascoltavi. E poi t’increbbe il detto
minor del fatto. Ascolto or io l’aedo,
solo, in silenzio. Chè gittai la cetra,
io. La raccolse con la mano esperta
solo di scotte un marinaio, un vecchio
dagli occhi rossi. Or chi la tocca? Il vento.
Or all’Aedo il vecchio Eroe rispose:
Terpiade Femio, e me vecchiezza offese
e te: chè tolse ad ambedue piacere
ciò che già piacque. Ma non mai che nuova
non mi paresse la canzon più nuova
di Femio, o Femio; più nuova e più bella:
m’erano vecchie d’Odisseo le gesta.
Sonno è la vita quando è già vissuta:
sonno; chè ciò che non è tutto, è nulla.
Io, desto alfine nella patria terra,
ero com’uomo che nella novella
alba sognò, nè sa qual sogno, e pensa
che molto è dolce a ripensar qual era.
Or io mi voglio rituffar nel sonno,
s’io trovi in fondo dell’oblio quel sogno.
Tu verrai meco. Ma mi narra il vero:
qual canto ascolti, di qual dolce aedo?
Ch’io non so, nella scabra isola, che altri
abbia nel cuore inseminati i canti.
E il vecchio Aedo al vecchio Eroe rispose:
Questo, di questo. Un nicchio vile, un lungo
tortile nicchio, aspro di fuori, azzurro
di dentro, e puro, non, Eroe, più grande
del nostro orecchio; e tutto ha dentro il mare,

con le burrasche e le ritrose calme,
coi venti acuti e il ciangottìo dell’acque.
Una conchiglia, breve, perché l’oda
il breve orecchio, ma che il tutto v’oda;
tale è l’Aedo. Pure a te non piacque.
Con un sorriso il vecchio Eroe rispose:
Terpiade Femio, assai più grande è il mare!

XI. La nave in secco

E il vecchio Aedo e il vecchio Eroe movendo
seguian la spiaggia del sonante mare,
molto pensando, e là, sul curvo lido,
piccola e nera, apparve lor la nave.
Vedean la poppa, e n’era lunga l’ombra
sopra la sabbia; nè molt’alto il sole.
E sopra lei bianchi tra mare e cielo
galleggiavano striduli gabbiani.
E vide l’occhio dell’Eroe che fresca
era la pece: e vide che le pietre
giaceano in parte, chè placato il vento
già non faceva più brandir la nave;
e vide in giro dagli scalmi acuti
pender gli stroppi di bovino cuoio;
e vide dal righino alto di poppa
sporger le pale di ben fatti remi.
Gli rise il cuore, poi che pronta al corso
era la nave; e le moveva intorno,
come al carro di guerra agile auriga

prima di addurre i due cavalli al giogo.
E venuto alla prua rossa di minio,
sopra la sabbia vide assisi in cerchio
i suoi compagni, tutti volti al mare
tacitamente; e si godeano il sole,
e la primaverile brezza arguta
s’udian fischiare nelle bianche barbe.
Sedean come per uso i longiremi
vecchi compagni d’Odisseo sul lido,
e da dieci anni lo attendean sul mare
col tempo bello e con la nuova aurora.
E veduta la rondine, le donne
recavano alla nave alte sul capo
l’anfore piene di fiammante vino
e pieni d’orzo triturato gli otri.
E prima che la nuova alba spargesse
le rose in cielo, essi veniano al mare,
i longiremi d’Odisseo compagni,
reggendo sopra il forte omero i remi,
ognuno il suo. Poi su la rena assisi
stavano, sotto la purpurea prora,
con gli occhi rossi a numerar l'ondate,
ad ascoltarsi il vento nelle barbe,
ad ascoltare striduli gabbiani,
cantare in mare marinai lontani.
Poi quando il sole si tuffava e quando
sopra venia l’oscurità, ciascuno
prendeva il remo, ed alle sparse case
tornavan muti per le strade ombrate.

XII. Il timone

Ed ecco, appena il vecchio Eroe comparve,
sorsero tutti, fermi in lui con gli occhi.
Come quando nel verno ispido i bovi
giacciono, avvinti, innanzi al lor presepe;
sdraiati a terra ruminano il pasto
povero, mentre frusciano l’acquate;
se con un fascio d’odoroso fieno
viene il bifolco, sorgono, pur lenta-
mente, nè gli occhi stolgono dal fascio:
così sorsero i vecchi, ma nessuno
gli andava, stretto da pudor, più presso.
Ed egli, sotto il teschio irto del lupo,
così parlò tra lo sciacquìo del mare:
Compagni, udite ciò che il cuor mi chiede
sino da quando ritornai per sempre.
Per sempre? chiese, e, No, rispose il cuore.
Tornare, ei volle; terminar, non vuole.
Si desse, giunti alla lor selva, ai remi
barbàre in terra e verzicare abeti!
Ma no! Nè può la nera nave al fischio
del vento dar la tonda ombra di pino.
E pur non vuole il rosichìo del tarlo,
ma l’ondata, ma il vento e l’uragano.
Anch’io la nube voglio, e non il fumo,
il vento, e non il sibilo del fuso,
non l’ozïoso fuoco che sonnacchia,
ma il cielo e il mare che risplende e canta.
Compagni, come il nostro mare io sono,
ch’è bianco all’orlo, ma cilestro in fondo.

Io non so che, lasciai, quando alla fune
diedi, lo stolto che pur fui, la scure;
nell’antro a mare ombrato da un gran lauro,
nei prati molli di viola e d’appio,
o dove erano cani d’oro a guardia,
immortalmente, della grande casa,
e dove uomini in forma di leoni
battean le lunghe code in veder noi,
o non so dove. E vi ritorno. Io vedo
che ciò che feci è già minor del vero.
Voi lo sapete, che portaste al lido
negli otri l’orzo triturato, e il vino
color di fiamma nel ben chiuso doglio,
che l’uno è sangue e l’altro a noi midollo.
E spalmaste la pece alla carena,
ch’è come l’olio per l’ignudo atleta;
e portaste le gomene che serpi
dormono in groppo o sibilano ai venti;
e toglieste le pietre, anche portaste
l’aerea vela; alla dormente nave,
che sempre sogna nel giacere in secco,
portaste ognun la vostra ala di remo;
e ora dunque alla ben fatta nave
che manca più, vecchi compagni? Al mare
la vecchia nave: amici, ecco il timone.
 Così parlò tra il sussurrìo dell’onde.

XIII. La partenza

 Ed ecco a tutti colorirsi il cuore
dell’azzurro color di lontananza;
e vi scorsero l’ombra del Ciclope
e v’udirono il canto della Maga:
l’uno parava sufolando al monte
pecore tante, quante sono l’onde;
l’altra tessea cantando l’immortale
sua tela così grande come il mare.
E tutti al mare trassero la nave
su travi tonde, come su le ruote;
e avvinsero gli ormeggi ad un lentisco
che verzicava sopra un erto scoglio;
e già salito, il vecchio Eroe nell’occhio
fece passar la barra del timone;
e stette in piedi sopra la pedagna.
Era seduto presso lui l’Aedo.
E con un cenno fece ai remiganti
salir la nave ed impugnare il remo:
sedevano essi con ne’ pugni il remo.
Egli tagliò la fune con la scure.
E cantava un cuculo tra le fronde,
cantava nella vigna un potatore,
passava un gregge lungo su la rena
con incessante gemere d’agnelli,
ricciute donne in lavatoi perenni
batteano a gara i panni alto cianciando
e dalle case d’Itaca rupestre
balzava in alto il fumo mattutino.
E i marinai seduti alle scalmiere

facean coi remi biancheggiar il flutto.
E Femio vide sopra un alto groppo
di cavi attorti la vocal sua cetra,
la cetra ch’egli avea gittata, e un vecchio
dagli occhi rossi lieto avea raccolta
e portata alla nave, ai suoi compagni;
ed era a tutti, l’aurea cetra, a cuore,
come a bambino infante un rondinotto
morto, che così morto egli carezza
lieve con dita inabili e gli parla,
e teme e spera che gli prenda il volo.
E Femio prese la sua cetra, e lieve
la toccò, poi, forte intonò la voga
ai remiganti. E quell’arguto squillo
svegliò nel cuore immemore dei vecchi
canti sopiti; e curvi sopra i remi
cantarono con rauche esili voci.
— Ecco la rondine! Ecco la rondine! Apri!
ch’ella ti porta il bel tempo, i belli anni.
È nera sopra, ed il suo petto è bianco.
È venuta da uno che può tanto.
Oh! apriti da te, uscio di casa,
ch’entri costì la pace e l’abbondanza,
e il vino dentro il doglio da sé vada
e il pane d’orzo empia da sé la madia.
Uno anc’a noi, col sesamo, puoi darne!
Presto, ché non siam qui per albergare.
Apri, ché sto su l’uscio a piedi nudi!
Apri, ché non siam vecchi ma fanciulli! —

XIV. Il pitocco

Cantavano; e il lor canto era fanciullo,
dei tempi andati; non sapean che quello
e nella stiva in cui giaceva immerso
nel dolce sonno, si stirò le braccia
e si sfregò le palpebre coi pugni
Iro, il pitocco. E niuno lo sapeva
laggiù, qual grosso baco che si chiude
in un irsuto bozzolo lanoso,
forse a dormire. Ché solea nel verno
lì nella nave d’Odisseo dormire,
se lo cacciava dalla calda stalla
l’uomo bifolco, o s’ei temeva i cani
del pecoraio. Nella buona estate
dormia sotto le stelle alla rugiada.
Ora quivi obliava la vecchiaia
trista e la fame: quando il suono e il canto
lo destò. Dentro gli ondeggiava il cuore:
Non odo il suono della cetra arguta?
Dunque non era sogno il mio, che or ora
portavo ai proci, ai proci morti, un messo:
ed ecco nell’opaco atrio la cetra
udivo, e le lor voci esili e rauche.
Invero udiva il tintinnio tuttora
e il canto fioco tra il fragor dell’onde,
qual di querule querule ranelle
per un’acquata, quando ancor c’è il sole.
E tra sé favellava Iro il pitocco:
O son presso ad un vero atrio di vivi?
e forse alcuno mi tirò pel piede

sino al cortile, poi che la mascella
sotto l’orecchio mi fiaccò col pugno?
Come altra volta, che Odisseo divino
lottò con Iro, malvestiti entrambi.
     Così pensando si rizzò sui piedi
e su le mani, e gli fiottava il capo,
e movendo traballava come ebbro
di molto vino; e ad Odisseo comparve,
nuotando a vuoto, ed ai remigatori,
terribile. Ecco e s’interruppe il canto,
e i remi alzati non ripreser l’acqua,
e la nave da prua si drizzò, come
cavallo indomito, e lanciò supino,
a piè di Femio e d’Odisseo seduti,
Iro il pitocco. E lo conobbe ognuno
quando, abbrancati i lor ginocchi, sorse
inginocchioni, e gli grondava il sangue
giù per il mento dalle labbra e il naso.
E un dolce riso si levò di tutti,
alto, infinito. Ed egli allor comprese,
e vide dileguare Itaca, e vide
sparir le case, onde balzava il fumo:
e le due coscie si percosse e pianse.
E sorridendo il vecchio Eroe gli disse:
Soffri. Hai qui tetto e letto, e orzo e vino.
Sii nella nave il dispensier del cibo,
e bevi e mangia e dormi, Iro non-Iro.