Il poeta degli Iloti

Giovanni Pascoli. Poemi conviviali. Bologna, Zanichelli, 1905

I. Il giorno

 Figlio di Dio, molto giocondo in cuore
prendesti terra in Aulide pietrosa!
Tornavi tu dal suolo degli Abanti
ricco di vigne, dalla popolata
di belle donne Calcide; nè prima
d’allora avevi traversato il mare.
Ma il largo mare traversasti allora;
chè il re, più re degli uomini mortali,
era là morto, ed una gara indetta
e di lotte e di corse era, e di canto.
E tu nel canto ogni cantor vincesti,
anche il vecchio di Chio cieco e divino,
col tuo ben congegnato inno di guerra.
Ed ora sceso dalla nera nave
movevi ad Ascra, assai giocondo in cuore;
chè per la via ti camminava a paro
un curvo schiavo, che reggea sul dorso
il premio illustre: un tripode di bronzo.

     Chè l’orecchiuto tripode di bronzo
gravava in prima al buon Ascreo le spalle;
e prima l’una, e l’altra poi; ché grave era,

di bronzo; e poi l’avea, per l’anse,
sospeso al ramo ch’era suo, d’alloro;
e lo portava: ma venuto a un grande
platano, donde chiara acqua sgorgava,
sostò, già stanco. Ed era quello il fonte
dove il segno gli Achei videro, d’otto
passeri implumi, e nove con la madre.
E di passeri il platano sul fonte
garriva ancora, e il buon Ascreo li udiva,
pensando in cuore un nuovo inno di guerra.
E riprendeva già la via, col caro
tripode, in dosso, che brillava al sole,
quando sorvenne un viator che bevve;
e seguitò. Ma poco dopo «O vecchio,»
disse, «ch’io porti il tuo laveggio: è peso».

  E tolse prima il tripode, che l’altro
gli rispondesse: dopo, gli rispose:
«Grave era, è grave. Ed anche tu sei vecchio».
«Ma sono schiavo» gli rispose il vecchio:
«schiavo; e dal monte Citerone io venni
menando al mare, ad una curva nave,
due bei vitelli, nati schiavi anch’essi.
Torno al padrone. Ma tu dove, o babbo?»
«Ad Ascra: ad Ascra, misero villaggio,
tristo al freddo, aspro al caldo, e non mai buono»
E non addimandato altro gli disse:
«Venni per mare, ad Aulide: ho passato
l’Euripo. Indetta a Calcide una gara
e di lotte e di corse era, e di canto.
Vinsi codesto tripode di bronzo
cantando gesta degli eroi...». «Sei dunque
rapsodo errante, e sai le false cose
far come vere, ma non dir le vere».

  Non rispondeva il vecchio Ascreo, ché tutto
era in pensar le mille navi in porto,
mentre sul curvo lido la procella
scotea le chiome degli Achei chiomanti.
E il sole era già caldo, e la campagna
fervea di mugli. Ché la pioggia a lungo
nei dì passati avea temprato il suolo,
e i contadini aravano le salde,
ed era tempo d’affidar le fave
ai solchi neri, e la lenticchia ai rossi.
E nudo un uomo traea giù da un carro,
presso la strada, con un suo ronciglio,
il pingue concio. E il buon Ascreo ne torse
il volto offeso. Ma lo schiavo curvo
sotto il ben fatto tripode di bronzo,
disse gioia a quel nudo uomo, e quel concio
lodò, maturo. E brontolò stradando:
«Ben fa, chi fa. Sol chi non fa, fa male.»

   Ed era presso mezzodì, né casa
ora appariva, a cui cercare un dono
piccolo e caro. Ché tra rupi e cespi
di stipe in fiore essi ripìano, muti.
Taceva anche la lodola dal ciuffo;
anche il cantore. Egli tacea per l’astio
ch’altri tacesse. Ma lo schiavo andando
volgea lo sguardo alle inamene roccie.
E disse alfine: «Ecco!» E mostrò la roccia
verde, in un punto, per nascente ontano.
«C’è tutto, al mondo, ma nascosto è tutto.
Prima, cercare, e poi convien raspare.»
Egli depose il tripode di bronzo,
raspò, rinvenne un sottil filo d’acqua.

Poi dal laveggio che brillava al sole
un pane trasse, che v’avea deposto,
e lo partì col buon Ascreo, dicendo:
«So ch’è più grande la metà che il tutto.»

   Finito, prima che la fame, il cibo,
mossero ancora per la via rupestre
che già scendeva. Ed ecco che lo schiavo
guardando attorno vide una bolgetta
in un cespuglio. E presala, vi scòrse
splendere dentro due talenti d’oro.
E guardò giù per il sentiero, e scòrse
lontan lontano cavalcare un uomo.
E disse: «Padre, per un po’ sul dorso
reggimi il grave tripode di bronzo,
ché n’avrei briga nel veloce corso.»
E corse, e giunse al cavalier, cui rese,
poi ch’egli suo glielo giurò, quell’oro.
Poi, trafelato, il buon Ascreo sorvenne.
«Facile t’era aver per te quell’oro!»
disse allo schiavo. E mormorò lo schiavo:
«Facile, sì: c’è poca strada al male.
Il male, o padre, è nostro casigliano.»

Così parlando andavano, e la strada
era già piana, e si vedean tuguri
di contadini ed ammuffiti borghi.
E lor giungea da tempo uno schiamazzo
di voci, come un abbaiar di cani
lontani. E sempre lor venìa più presso.
Erano gente che in un trivio aperto
rissavano con voci aspre di cani.
E alcun di loro già brandìa la zappa,

poi che l’irosa voce era già rauca;
quando lo schiavo nel buon punto accorse,

deposto in terra il tripode di bronzo;
e tenne l’uno e sgridò l'altro, e disse:
«Pace! È la pace che ralleva i bimbi.
Sono i pesci dell’acque, e son le fiere
dei boschi, e sono gli avvoltoi dell’aria,
ch’hanno per legge di mangiar l'un l’altro.
Gli uomini, no, ché la lor legge è il bene.»

E quelli ognun tornava all’intermessa
opera, in pace. E i bovi sotto il giogo
rivedeano il lor uomo con un muglio,
compiendo il solco al suon della sua voce
ch'era arrochita: e le ricurve zappe
sfacean le zolle seppellendo il seme.
E lo schiavo riprese sopra il dorso
l'aspro di segni tripode di bronzo,
e riprendendo la sua via diceva
ad un rubesto giovane: «Lavora,
o gran fanciullo, se la terra e il cielo
t'amino, amando essi chi lor somiglia!
Chè la nube carreggia, con un cupo
brontolìo, l'acqua; e da lontano, ansando,
il vento viene; e infaticato il sole
torna ogni giorno. Ma la terra è tarda,
madre che fece tanti figli, e tutti
li ebbe alla poppa. O dàlle ora una mano!»     

E lo schiavo stradò col suo cantore
a paro a paro. E già scendea la sera,
e velava una dolce ombra le strade.
Nè più borghi muffiti erano intorno, nè casolari.

Erano intorno macchie
folte di lauro che odorava al cielo.
E videro ambedue ch’era smarrita
ormai la strada. Ed il cantore stanco
disse allo schiavo: «Mal tu m’hai condotto.»
E gli rispose il pazïente schiavo:
«In te fidavo: Ché del buon cammino
chi c’è, se non il buon cantor, maestro?»

II. La notte

 E sul lor capo era l’opaca notte
piena di stelle. E risplendea nel cielo
l’Orsa minore, che accennò qual fosse
la vera strada, né però dall’alto
la rischiarava, colaggiù, nell’ombra.
E l’uomo allora e presso lui lo schiavo
sostarono nel bosco ove in un giogo
s’allargava assai piana una radura,
donde era meglio preveder le fiere,
se alcuna v’era che traesse al fiuto.
E poi lo schiavo conficcò nel suolo
il suo bastone, e presso quello il ramo
di sacro lauro, del cantore, e sopra
la sua schiavina sciorinò, che fosse
schermo dal lato onde veniva il freddo.
E disse: «O padre, bene io so le notti
gelide, e il sonno sotto la rugiada.
Ma è ben tardi perché tu l’impari.»  

Ma allo schiavo il pio cantor rispose:
«Ospite caro, basta ch’io ricordi.
Ero fanciullo ed imparai le notti
gelide e il sonno sotto la rugiada.
Ché da fanciullo pascolai la greggia,
reggendo in mano la ricurva verga
del pecoraio, non lo scettro, ramo
di sacro alloro che, senz’altro squillo
d’arguta cetra, colma a me di canto,
come alle genti di silenzio, il cuore.
Mio padre ad Ascra dall’eolia Cyme
venne, fuggendo, non la copia e gli agi,
sì la cattiva povertà; che venne,
tanto l’amava, su la nave anch’ella,
né più si stolse e poi restò col figlio.
E io badai le pecore sui greppi
dell’Elicone, il grande monte e bello,
e le notti passai su la montagna.

    E in una notte come questa... il sonno
non mi voleva. Ché splendean le stelle
tutte nel cielo, e fresche del lavacro
veniano su le Pleiadi che al campo
lascian l’aratro e trovano la falce.
E insonne udivo uno stormir di selve,
un correr d’acque, un mormorio di fonti.
E s’esalava un infinito odore
dai molli prati, e tutto era silenzio,
e tutto voce; ed era tutto un canto.
Ed ecco tutto io mi sentii dischiuso
all’universo, che d’un tratto invase
l’essere mio; né così lieve un sogno
entra nell’occhio nostro benché chiuso.
E tutto allora in me trovai, che prima

fuori appariva, e in me trovai quel canto,
che si frangea nell’anima serena
piena, nell’alta opacità, di stelle.

 E quel canto parlava della Terra
dall’ampio petto, che, infelice madre,
nell’evo primo non facea che mostri,
orrendi enormi, e li tenea nascosti
in sé, perché non li vedesse il Cielo.
E lei guardava coi mille occhi il Cielo,
molto in sospetto, ché l’udia sovente
gemere e la vedea scotersi tutta
per la strettura; e venir fumo fuori
nel giorno, e fiamme nella nera notte.
Al fin la Terra spinse fuor d’un tratto
la grande prole; e con un grande sbalzo
sorsero i monti dalle cento teste,
e d’ogni testa usciva il fumo e il fuoco,
che tolse il giorno e insanguinò la notte.
E non era che notte, risonante
di strida, rugghi, sibili, latrati,
e già non altro si vedea, che i mostri
lambersi il fuoco con le lingue nere.

 E i mostri urlando massi ardenti al Cielo
avventarono; e il Cielo, arso dall’ira,
spezzò le stelle e ne scagliò le scheggie
contro la Terra, e in una notte d’anni
tra Cielo e Terra risonò la rissa.
Qua mille braccia si tendean nell’ombra
coi massi accesi, e mille urli ad un tempo
uscìan con essi; ma dall’alto gli astri
pioveano muti con un guizzo d’oro.

E il masso a volte si spezzò nell’astro.
E sfavillante un polverìo si sparse
nel nero spazio, come la corolla
d’un fior di luce, che per un momento
illuminò gli attoniti giganti,
e il mare immenso che ondeggiava al buio,
e in terra e in aria rettili deformi,
nottole enormi; e qualche viso irsuto
di scimmia intento ad esplorar da un antro.

E poi fu pace. Ed ecco uscì dall’antro
il bruto simo, e nella gran maceria,
dove sono i rottami anche del Cielo,
frugò raspò scavò, come fa il cane
senza padrone, ove si spense un rogo.
E fruga ancora e raspa ancora e scava
ancora. Ma dal Cielo ora alla Terra
sorride il sole e piange pia la nube.
È pace. Pur la Terra anco ricorda
l’antica lotta, e gitta fuoco, e trema.
E al Cielo torna l’ira antica, e scaglia
folgori a lei con subito rimbombo.
È pace sì, ma l’infelice Terra
è sol felice, quando ignara dorme;
e il Cielo azzurro sopra lei si stende
con le sue luci, e vuol destarla e svuole,
e l’accarezza col guizzar di qualche
stella cadente, che però non cade.

Come ora. E sol com’ora anco è felice
l’uomo infelice; s’egli dorme, o guarda:
quando guarda e non vede altro che stelle,
quando ascolta e non ode altro che un canto».

Così parlava, e dolce sorse un canto:
sul rumor delle foglie e delle fonti,
un dolce canto pieno di querele
e di domande, un nuvolo di strilli
cadente in un singulto grave, un grave
gemere che finiva in un tripudio.
E il buon Ascreo diceva: «Ecco, fu tolto
il sonno, tutto al querulo usignolo
che così piange per la notte intiera,
né sotto l’ala mai nasconde il capo;
ma solo mezzo, a quella cui la sera
gemere ascolta e riascolta l’alba.
Miseri! e un solo è il lor dolore, e forse
l’uno non ode mai dell’altro il pianto!»

   E lo schiavo diceva: «Oh! non è pianto
questo né l’altro. Ma la casereccia
rondine ha molti i figli e le faccende,
e sa che l’alba è un terzo di giornata;
e dolce a quegli che operò nel giorno,
viene la sera, e lieto suona il canto
dopo il lavoro. E l’usignol gorgheggia
tutta la notte né vuol prender sonno...
ch’egli non vuole seppellir nel sonno,
avere in vano dentro sé non vuole
un solo trillo di quel suo dolce inno!»
Così parlava. E sorse aurea la luna
dalla montagna, ed insegnò la strada
al buon Ascreo, che mosse con lo schiavo.
A mano a mano lo accoglieva il canto
degli usignoli, fin che su l’aurora
gli annunzïò ch’era vicino un tetto,
una garrula rondine in faccende.

E poi giunsero al monte alto e divino,
a un tempio ermo tra i boschi. E il pio cantore
disse allo schiavo: «Ospite amico, è questo
il luogo dove pasturai fanciullo
il gregge, e dove appresi il canto, e dove
cantai la rissa tra la Terra e il Cielo.
Ma poi mi piacque, non cantare il vero,
sì la menzogna che somiglia al vero.
Ora il lavoro canterò, né curo
ch’io sembri ai re l’Aedo degli schiavi».


 Disse: e nel tempio solitario appese
il bello ansato tripode di bronzo.